L’open world è diventato uno dei sogni ricorrenti dei videogiochi moderni: mondi giganteschi, libertà di movimento, missioni affrontabili nell’ordine che preferiamo.
Ma questa idea di “gioco aperto” non è nata con GTA V o con gli open world moderni: affonda le radici nei computer degli anni ’80, nei primi RPG, nei sandbox sperimentali e persino nel gioco di ruolo da tavolo.
In questo speciale ripercorriamo la storia dell’open world, da quando era solo un’idea abbozzata in pochi pixel fino ai mondi complessi di oggi, tra realismo, IA e scelte del giocatore sempre più importanti.
Le origini: quando l’open world era solo un’idea (anni 80 e primi 90)
Prima ancora che i videogiochi potessero rappresentare città realistiche o mappe gigantesche in 3D, esisteva già il concetto di “mondo aperto” a livello di design.
Nei primi anni ’80, diversi giochi provarono a dare al giocatore una sensazione di libertà, anche se con i limiti tecnici dell’epoca:
- alcune avventure testuali permettevano di muoversi in più direzioni e tornare in aree già visitate;
- i primi RPG su PC offrivano mappe esplorabili non completamente lineari;
- alcuni titoli su home computer permettevano di scegliere l’ordine delle missioni o degli obiettivi.
Non erano open world come li intendiamo oggi, ma avevano già un principio chiave:
“Il giocatore non è costretto a seguire un singolo corridoio, ma può scegliere dove andare”.
Con il passaggio alle console a 8 e 16 bit, l’idea si rafforza: nascono mondi con hub centrali, aree secondarie, segreti nascosti. Non c’è ancora il “mondo unico enorme”, ma si inizia a ragionare in termini di esplorazione e libertà.
L’era 2D: mappe aperte e primi mondi “semi-liberi”
Negli anni ’90, mentre molte serie erano ancora lineari, altri titoli iniziano a lavorare su concetti che poi diventeranno fondamentali per l’open world:
- Esplorazione non lineare: il giocatore può affrontare alcune zone nell’ordine che preferisce.
- Backtracking: si torna in aree già visitate con nuove abilità per sbloccare segreti.
- Mappa unica: il mondo di gioco viene percepito come un luogo “continuo”, anche se diviso in schermate o zone.
In questa fase storica l’open world non è ancora una “feature di marketing”, ma un modo per:
- aumentare la durata del gioco,
- dare al giocatore una sensazione di mondo vivo,
- premiare chi ama esplorare, non solo “finire il livello”.
I primi episodi della saga Grand Theft Auto ne sono l’esempio lampante
Il salto al 3D: gli anni 2000 e la rivoluzione GTA
Il vero momento di svolta per il grande pubblico arriva con il passaggio definitivo al 3D su PC e console di nuova generazione.
Cambia tutto:
- nascono città intere da esplorare; dai primi episodi della saga The Elder Scrolls, a Far Cry e la famosa ma oggi meno discussa saga di Crysis
- il passaggio tra una missione e l’altra avviene guidando liberamente nel mondo;
- il giocatore può ignorare la storia principale e dedicarsi solo ad attività secondarie.
L’open world smette di essere solo struttura e diventa identità del gioco.
La mappa non è più “sfondo”, ma protagonista.
In questo periodo si fissano alcuni pilastri del genere:
- Missioni marcate sulla mappa, raggiungibili quando vogliamo;
- Attività opzionali e minigiochi sparsi nel mondo;
- Sistema di “wanted” o di conseguenze per le azioni del giocatore;
- libertà di approccio: storia, esplorazione, caos totale, o un mix di tutto.
L’open world diventa sinonimo di:
“Fai quello che vuoi, quando vuoi”.
Sandbox e libertà totale: quando il giocatore scrive la sua storia
Con il passare degli anni, alcuni sviluppatori fanno un passo oltre:
non vogliono solo offrire una mappa grande, ma un mondo interattivo, in cui il giocatore possa sperimentare.
Si afferma il concetto di sandbox:
- il gioco offre strumenti, sistemi e regole;
- è il giocatore a creare le situazioni più divertenti;
- la storia non è più l’unico motore: diventano centrali la sperimentazione e la creatività.
In questa categoria rientrano:
- mondi dove si possono combinare oggetti, abilità, elementi dello scenario;
- titoli dove ogni missione si può risolvere in tanti modi diversi;
- giochi dove la fisica e l’IA reagiscono davvero alle nostre azioni.
Da qui nasce anche l’idea che ogni giocatore viva un’esperienza diversa, con aneddoti unici e momenti che non erano stati “scriptati” dagli sviluppatori.
L’epoca degli open world “a formula”: mappe gigantesche e icone ovunque
Arriviamo così all’epoca in cui l’open world esplode davvero come standard di mercato:
molti giochi d’azione, GdR e persino shooter adottano il mondo aperto come struttura base.
In questa fase, però, succede anche un’altra cosa:
il genere inizia a “standardizzarsi”.
- Mappe enormi ma piene di icone e attività ripetitive. come in Assassin’s Creed e in generale la maggior parte dei titoli Ubisoft
- “Torre” o punti di sincronizzazione che rivelano nuove zone della mappa.
- Missioni secondarie molto simili tra loro (prendi, consegna, libera un’area, raccogli X oggetti).
Da una parte, questa formula rende gli open world ricchi di contenuti.
Dall’altra, per molti giocatori nasce la sensazione di “checklist”: invece di esplorare per curiosità, si esplora per “pulire la mappa”.
Il rischio è chiaro:
l’open world diventa enorme, ma non sempre interessante.
La nuova generazione: meno icone, più esplorazione vera
Negli ultimi anni molti studi hanno provato a rompere la formula troppo guidata, tornando a un concetto più puro di esplorazione:
- meno indicatori a schermo;
- meno “vai qui, fai questo”;
- più curiosità, osservazione e scoperta.
L’idea è:
“Ti diamo un mondo, non un elenco di compiti”.
Tra i cambiamenti di tendenza più importanti possiamo individuare alcuni trend:
- Meno hand-holding: il gioco non ti dice sempre dove andare, ma ti mette indizi visivi, dialoghi e dettagli ambientali.
- Meno attività copia-incolla, più punti di interesse costruiti a mano.
- Meno mappe “riempite”, più mondi “pensati”, dove ogni area ha una propria identità.
Si torna così al concetto iniziale dell’open world:
non tanto grandezza per impressionare, ma un mondo da esplorare con curiosità.
I giochi più noti sono e rimangono quelli di From Software, Con i vari Demon Souls, Dark Souls, fino a Elden Ring
Open world e narrativa: libertà contro ritmo della storia
Uno dei problemi storici dell’open world è sempre stato questo:
“Come racconti una storia forte se il giocatore può scappare via da ogni scena?”
Gli sviluppatori hanno sperimentato strade diverse:
- Storia principale lineare ma incastonata dentro un mondo aperto.
- Missioni che cambiano il mondo in base alle scelte del giocatore.
- Eventi che si attivano solo in certe condizioni, orari o aree, per dare la sensazione di mondo che vive anche senza di noi.
Oggi la sfida è:
- permettere al giocatore di essere libero,
- senza far perdere tensione, emozione e ritmo alla trama.
Alcuni studi hanno iniziato a usare soluzioni come:
- missioni che si risolvono in modi diversi in base a come arriviamo lì;
- dialoghi che cambiano se abbiamo già visto certe zone o parlato con certi personaggi;
- finali o situazioni diverse a seconda del nostro stile di gioco.
Tecnica e IA: mondi sempre più credibili
Dal punto di vista tecnico, l’evoluzione dell’open world è stata enorme:
- motori grafici sempre più potenti permettono di mostrare città dense, paesaggi vasti e ambienti ricchi di dettagli;
- sistemi meteo dinamici, ciclo giorno-notte, fauna e traffico reagiscono alle nostre azioni;
- l’IA di nemici e NPC diventa più sofisticata, con routine, reazioni e comportamenti credibili.
Tutto questo non serve solo a “fare colpo” graficamente, ma a raggiungere l’obiettivo principale dell’open world: il primo gioco a far questo in maniera impeccabile è The witcher 3 , che nel 2015 aveva ridisegnato il genere Open World menzione di nota anche a Skyrim che ci arrivò per primo nel 2011 ma con meno pulizia tecnica rispetto al colosso di Cd Project Red. Ovviamente ci sono molti titoli come Zelda Breath Of The Wild e anche il successore Tears Of The Kingdom. Purtroppo in questo pezzo è impossibile citarli tutti.
farci sentire dentro un mondo che potrebbe continuare a esistere anche senza il nostro personaggio.
Il futuro dell’open world: tra IA, mondi condivisi e realismo selettivo
Guardando avanti, possiamo immaginare alcune direzioni chiave per l’open world:
- Mondi più reattivi e meno scriptati: IA capaci di creare eventi dinamici, nemici che imparano, NPC con comportamenti meno prevedibili.
- Open world condivisi: esperienze ibride tra single player e multiplayer, in cui il mondo viene aggiornato nel tempo con nuovi eventi, missioni, aree.
- Realismo selettivo: non tutto deve essere realistico al 100%, ma ciò che conta (fisica, IA, interazioni ambientali) viene curato in profondità.
- Meno “riempitivo”: sempre più studi stanno capendo che non serve una mappa gigantesca se poi i contenuti non sono all’altezza.
L’obiettivo è chiaro:
costruire mondi che non siano solo grandi, ma memorabili.
Perché l’open world continua a piacerci così tanto
Nonostante i suoi difetti e le derive “da checklist”, l’open world resta uno dei generi più amati perché:
- tocca una fantasia molto semplice: “posso andare dove voglio”;
- permette al giocatore di decidere il ritmo della propria esperienza;
- crea momenti unici, aneddoti irripetibili che non erano stati scritti in sceneggiatura.
Che si tratti di esplorare una metropoli moderna, un regno fantasy o un mondo post-apocalittico, l’open world continua a essere il modo migliore per farci sentire davvero dentro il videogioco.
E se il futuro saprà unire meno ripetitività, più significato e mondi sempre più reattivi, è probabile che parleremo di open world ancora per molti anni se non per interi decenni.

